La penitenza chiesta dal Cielo, odiata dal mondo
Il concetto di penitenza è estraneo al mondo moderno, immerso nell’edonismo e nel relativismo. Nuovo è l’atteggiamento delle autorità ecclesiastiche impregnate di “cattolicesimo adulto”. Le penitenze mortificano l’Io, piegano la natura ribelle, riparano ed espiano i peccati propri ed altrui. E non solo…
Se c’è un concetto radicalmente estraneo alla mentalità contemporanea è quello di penitenza.
Il termine e la nozione di penitenza evocano l’idea di una sofferenza che infliggiamo a noi stessi per espiare colpe proprie o altrui e per unirci ai meriti della Passione redentrice di Nostro Signore Gesù Cristo. Il mondo moderno rifiuta il concetto di penitenza, perché è immerso nell’edonismo e perché professa il relativismo, che è la negazione di qualsiasi bene per il quale valga la pena di sacrificarsi, a meno che non sia la ricerca del piacere. Solo questo può spiegare episodi come il furibondo attacco mediatico in corso contro le Francescane dell’Immacolata, i cui monasteri vengono dipinti come luoghi di sevizie, solo perché in essi si è praticata una vita austera e penitente. Usare il cilicio o imprimere sul proprio petto il monogramma del nome di Gesù viene considerato una barbarie, mentre praticare il sadomasochismo o tatuare indelebilmente il proprio corpo è oggi considerato un diritto inalienabile della persona.
I nemici della Chiesa ripetono con tutta la forza di cui i media sono capaci le accuse degli anticlericali di tutti i tempi. Ciò che è nuovo è l’atteggiamento di quelle autorità ecclesiastiche, che invece di prendere le difese delle suore diffamate, le abbandonano, con segreto compiacimento, al carnefice mediatico. Il compiacimento nasce dall’incompatibilità che esiste tra le regole a cui queste religiose si ostinano ad uniformarsi e i nuovi standard imposti dal “cattolicesimo adulto”.
Lo spirito di penitenza appartiene, fin dalle origini, alla Chiesa cattolica, come ci ricordano le figure di san Giovanni Battista e santa Maria Maddalena, ma oggi anche per molti uomini di Chiesa ogni richiamo alle antiche pratiche ascetiche è considerato intollerabile. Eppure non v’è dottrina più ragionevole di quella che stabilisce la necessità della mortificazione della carne. Se il corpo è in rivolta contro lo spirito (Gal 5, 16-25), non è forse ragionevole e prudente castigarlo? Nessun uomo è esente dal peccato, neppure i “cristiani adulti”. Dunque chi espia i propri peccati con la penitenza non agisce forse secondo un principio tanto logico quanto salutare? Le penitenze mortificano l’Io, piegano la natura ribelle, riparano ed espiano i peccati propri ed altrui. Se poi consideriamo le anime amanti di Dio, che cercano la somiglianza con il Crocifisso, allora la penitenza diviene una necessità dell’amore. Sono celebri le pagine del De Laude flagellorum di san Pier Damiani, il grande riformatore dell’XI secolo, il cui monastero di Fonte Avellana era caratterizzato da un’estrema austerità nelle regole. «Vorrei subire il martirio per Cristo – egli scriveva – non ne ho l’occasione; ma sottoponendomi ai colpi, almeno manifesto la volontà della mia anima ardente».
Ogni riforma, nella storia della Chiesa, è avvenuta con l’intento di riparare con le austerità e le penitenze i mali del tempo. Nel XVI e XVII secolo, i Minimi di san Francesco di Paola praticano un voto di vita quaresimale che impone loro l’astensione perpetua non solo di carne, ma di uova, latte e tutti i suoi derivati; i Recolletti consumano il proprio pasto in terra, mescolano cenere ai cibi, si allungano davanti alla porta del Refettorio sotto i piedi dei Religiosi che entrano; i Fatebenefratelli prevedono nelle loro costituzioni di «mangiare in terra, baciare i piedi dei fratelli, subire riprensioni pubbliche e accusarsi pubblicamente». Analoghe sono le Regole dei Barnabiti, degli Scolopi, dell’Oratorio di san Filippo Neri, dei Teatini. Non c’è istituto religioso, che non preveda nelle proprie costituzioni, la prassi del capitolo delle colpe, la disciplina più volte la settimana, i digiuni, la diminuzione delle ore di sonno e di riposo.
Benedetto XIV, che era un Papa mite ed equilibrato, affidò la preparazione del Giubileo del 1750 a due grandi penitenti, san Leonardo da Porto Maurizio e san Paolo della Croce. Fra’ Diego da Firenze ci ha lasciato un diario della missione tenuta in piazza Navona dal 13 al 25 luglio 1759 da san Leonardo da Porto Maurizio, che con una pesante catena al collo e una corona di spine in capo si flagellava davanti alla folla gridando: «O penitenza o inferno». San Paolo della Croce terminava la sua predicazione infliggendosi dei colpi così violenti che spesso qualche fedele non resisteva più allo spettacolo e saltava sul palco, a rischio di essere colpito egli stesso, per arrestargli il braccio.
La penitenza è stata praticata ininterrottamente per duemila anni dai santi (canonizzati e non), che – con la loro vita – hanno contribuito a scrivere la storia della Chiesa, da santa Giovanna di Chantal e santa Veronica Giuliana, che si incisero sul petto il Cristogramma con il ferro incandescente, a santa Teresa del Bambin Gesù, che scrive il Credo col suo sangue, alla fine del libriccino dei Santi Vangeli che porta sempre sul cuore. Questa generosità non caratterizza solo le monache contemplative. Nel Novecento due santi diplomatici illuminano la Curia romana: il cardinale Rafael Merry del Val, segretario di Stato di san Pio X, e il servo di Dio, mons. Giuseppe Canovai, rappresentante della Santa Sede in Argentina e in Cile. Il primo indossava, sotto la porpora cardinalizia, una camicia di crine intrecciata con piccoli ganci di ferro. Del secondo, autore di una preghiera scritta col sangue, il cardinale Siri scrive: «Le catenelle, i cilizi, i flagelli orribili a base di lama da barba, le ferite, le cicatrizzazioni incalzate da supervenienti ferite non sono il principio, ma il termine di un fuoco interiore; non la causa; ma la eloquente e rivelatrice esplosione di esso. Si trattava della chiarezza per cui in sé ed in ogni cosa vedeva un valore per amare Dio e per cui vedeva assicurato nel lancinante sacrificio del sangue la sincerità d’ogni altra interiore rinuncia».
Fu negli anni Cinquanta del Novecento che le pratiche ascetiche e spirituali della Chiesa iniziarono a declinare. Il padre Giovanni Battista Janssens, generale della Compagnia di Gesù, intervenne più di una volta, per richiamare i propri confratelli allo spirito di sant’Ignazio. Nel 1952 inviò loro una lettera sulla «continua mortificazione», in cui si opponeva alle posizioni della nouvelle théologie, che tendevano a escludere la penitenza riparatrice e quella impetratoria e scriveva che digiuni, flagelli, cilizi e altre asperità devono restare nascoste agli uomini secondo la norma di Cristo (Mt 6, 16-8), ma devono essere insegnate e inculcate ai giovani gesuiti fino al terzo anno di probazione. Possono cambiare, nei secoli, le forme di penitenza, ma non può mutare lo spirito, sempre opposto a quello del mondo.
Prevedendo l’apostasia spirituale del secolo XX, la Madonna in persona, a Fatima, richiamò la necessità della penitenza. La penitenza non è altro che il rifiuto delle false parole del mondo, la lotta contro le potenze delle tenebre, che si contendono con quelle angeliche il dominio delle anime e la mortificazione continua della sensualità e dell’orgoglio radicati nel più profondo del nostro essere. Solo accettando questo combattimento contro il mondo, il demonio e la carne (Ef 6, 10-12), potremmo comprendere il significato della visione di cui tra un anno celebreremo il centesimo anniversario. I pastorelli di Fatima videro «al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l’Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza!».
Roberto de Mattei
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